Intervista a Luigi Trabucchi

TRABUCCHI LUIGI — PSICHIATRA Esperto Professionale

  • Laurea in Medicina e specializzazione in Psichiatria.
  • Opera a tempo pieno quale Psichiatra Clinico da trent’anni.
  • Ha svolto ruolo di docenza di Psichiatria a corsi per Operatori Sanitari
    per oltre 15 anni.
  • Aiuto Corresponsabile presso Casa di Cura Villa Santa Chiara.
  • Presidente Associazione Italiana Medici della Sanità Privata.
  • Segretario Nazionale della Società Italiana per l’Assistenza Psichiatrica.
  • Ha svolto un ruolo di docente per oltre 15 anni presso una scuola per Operatori Socio Sanitari OSS della Regione Veneto.
  • Ha insegnato in corsi per Infermieri e OSS presso Villa Santa Chiara e altre strutture.
  • Nel 2018 ha pubblicato un testo per Operatori e familiari dal titolo “L’assistenza nel disagio psichico” Edizioni Piccin Padova.
  • Nel 2015 ha pubblicato un saggio sulla storia dell’Ospedale Psichiatrico di San Giacomo di Verona dal titolo: Cherubino Trabucchi e l’Ospedale Psichiatrico di Verona Ed. Cierre Verona.
  • Ha pubblicato alcuni articoli di storia della psichiatria e di clinica psichiatrica.

Ci può dare una sintesi di come è cambiato in Italia l’approccio scientifico e pratico alle malattie mentali negli ultimi 10-20 anni?

Le scienze umane cui appartengono la Medicina e la Psichiatria sono legate all’Uomo che vive nella storia e nella realtà del momento. Da ciò deriva il fatto che i cambiamenti della vita umana, intesa in senso più ampio, portano a nuovi disagi e nuovi bisogni. Le malattie risentono tutte delle diverse esperienze esterne, sappiamo ad esempio come le pandemie hanno inciso sulla storia umana fin dai tempi dei Romani ad oggi. Tanto più ciò avviene in ambito psichico.

Nella prima metà del secolo scorso, in psichiatria si è passati da una visione biologica ad una visione psicologica e quindi sociale della malattia mentale. Gli anni 1970 e 1980 hanno integrato queste dimensioni in un’ottica unitaria mettendo fine ai contrasti tra i fans delle diverse concezioni.

In seguito, vi sono stati l’avvento del Computer, la globalizzazione delle conoscenze, una prevalenza scientifica, della mentalità tecnocratica anglosassone, una incapacità culturale di affrontare i problemi in modo ampio e multifattoriale, che hanno esasperato la necessità e la importanza delle classificazioni. Appare facile capire quindi che una generazione di psichiatri si sia formata nella totale adesione alla classificazione diagnostiche statunitensi del DSM nelle sue successive versioni III, IV e V.  Una tale esasperazione del valore delle classificazioni ha portato ad una spiccata attenzione delle stesse e di conseguenza la diagnosi ha assunto i connotati di una “realtà oggettiva” una reificazione della stessa perdendo di vista la realtà delle persone vere che si incontrano nella clinica.

Il confronto però con le persone reali ha, pian piano, dimostrato come tale sillogismo diagnosi/realtà clinica fosse totalmente inadeguato. La realtà a 360 gradi della clinica e la necessità di mettere insieme diagnosi diverse per descrivere ed approcciare il singolo individuo, di rappresentare il mondo reale dei pazienti, ha messo in discussione tutto ciò.

Gli ultimi 20 anni del XXI° secolo hanno così visto una spaccatura tra Psichiatria Istituzionale e Accademica legate alla diagnosi del DSM e l’operare concreto di chi lavora sul campo e in trincea, che ha bisogno di comprendere e curare i problemi di salute e di disagio esistenziale dell’Uomo vero. Dalla teoria alla pratica si è scavato un solco profondo.

L’accademia persegue sempre la particolare attenzione alla diagnostica, ma nella pratica si è visto che la gran parte dei bisogni dei clienti sono bisogni legati ad un disagio esistenziale multifattoriale, che coinvolge aspetti sociali, lavorativi, affettivi, economici, abitativi.

Vi sono sempre più numerose le persone che presentano un disturbo della personalità di vario ordine: insicuro, ossessivo, con turbe dell’identità, dell’emotività e della relazione o di tipo borderline. Tali personalità faticano a inserirsi e restare in una società sempre più competitiva, complessa, che richiede efficienza sfrenata e, viceversa, non sa dare certezze, serenità e rispetto a chi è più fragile.

Le problematiche del lavoro, della sicurezza, della prospettiva futura e di una realtà familiare solida che stanno aumentando di giorno in giorno, mettono a rischio la serenità, l’armonia della vita quotidiana e le certezze per il futuro.

Che vi sia una difficoltà personale alla base o che questa sia conseguente alle vicende della vita, tutto porta a disagio e disturbi psichici, che alla fine diventano oggetto di osservazione della psichiatria che lavora veramente in mezzo alla gente. In tale contesto l’opera dello psichiatra non può certo essere esaurita con gli strumenti strettamente medici, ma servirebbero molte altre opzioni sociali che non vi sono. Chi lavora nel disagio psichico e sociale, che ora sono quasi due facce della stessa medaglia, avrebbe bisogno di sussidi, di alloggi, di lavoro protetto, di lavoro per i giovani, di Comunità, di formazione. Sono realtà che in effetti organizzativamente ci sono, ci sono anche nella realtà, ma poi numeri, problemi burocratici, una legislazione garantista, che talvolta lascia libertà di decisone alla persona che spesso non è in grado di determinarsi, e le solite carenze di fondi rendono tutto facile sulla carta, ma difficile nel concreto operare quotidiano.

Si arriva così alla frustrazione e alla cosiddetta porta girevole del ricovero ospedaliero, ove si mette un po’ in sesto la persona, la malattia, il comportamento disturbato e disturbante e poi si riaprono le porte e tutto ricomincia perché non viene affrontato e risolto il problema alla base, con i tempi e le competenze adeguate.

Per fortuna la buona volontà, la passione di chi opera ha sempre salvato o rattoppato la barca. Ora però il Covid, la fatica del lavoro, lo stress e i costi crescenti di fronte a risorse sempre più limitate, hanno messo in luce le carenze di una programmazione di formazione del nuovo personale sanitario che dovrebbero sostituire chi esce, lasciando a pochi lo sforzo di sopperire un lavoro cresciuto nella quantità, nello stress, nella delusione dell’impotenza.

Il Covid con le sue incertezze tra prevenzione, mortalità, vaccino si e vaccino no, ma soprattutto il dottor Google hanno aggiunto conflittualità, alla già ridotta fiducia delle persone verso i sanitari. Non esiste più il rapporto di fiducia medico paziente, ora domina la pretesa del cliente di ottenere quello che lui “SA” già essere la diagnostica e la cura migliore per la malattia che lui si è già conosce in tutto per tutto perché si è documentato.

Come è stato in passato per le differenti disabilità, anche le malattie mentali erano degli elementi disturbanti che era meglio isolare, nascondendole agli occhi della gente. Questo creava nella gente comune, un senso di estraneazione, se non quasi di paura, per ciò che non conoscevano. È cambiata ad oggi la percezione comune?

Per rispondere a questo si deve fare un salto nella legislazione che ha una valenza circolare, di causa ed effetto di una cultura.

Il medioevo dava un significato religioso, del tipo presenze del maligno, alla alienazione, alla diversità e al comportamento disturbante. Nell’età moderna entra in campo invece la ricerca di una interpretazione scientifica: di capire il dove e il perché vi sia il vulnus nel cervello, che si iniziava allora a comprendere come l’organo deputato alle funzioni della mente. Nascono così in tutta Europa i ricoveri, gli asili per gli alienati che permettono di studiare, classificare per poter curare.

Nel 1904 in Italia viene regolamentata l’assistenza psichiatrica con l’istituzione ufficiale dei Manicomi (poi divenuti gli Ospedali Psichiatrici Provinciali). Quella legge però recepisce una concezione culturale poco sanitaria, le cure erano ancora pressoché nulle, e, viceversa, lasciava spazio ad una cultura ancora molto difensiva dalla malattia mentale e di conseguenza molto più predisposta alla custodia e garanzia sociale e giudiziaria sociale, che alla cura della persona.

La legge del 1904 stabiliva che dovevano essere “custodite e curate” nei manicomi le persone affette, per qualunque causa, da alienazione mentale, quando siano “pericolose a sé o agli altri, o riescano di pubblico scandalo” e non siano o non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi.

Si trattava di una legge che, pur richiedendo il requisito di alienazione mentale, gli associava la pericolosità e il pubblico scandalo, mescolando quindi elementi medici a elementi di pubblica sicurezza. Se poi si osserva lo scopo dell’intervento, cioè custodire e curare i malati psichici, questo della custodia appare subito prevalente e prioritario già nella dizione.

Nel 1968 c’è una piccola revisione dell’organizzazione degli Ospedali Psichiatrici in senso più sanitario, viene istituito il ricovero volontario e viene abrogato, in tal caso, l’obbligo di annotazione del ricovero sul casellario giudiziario. Si riconosce la malattia a sé stante al di là del comportamento sociale e la richiesta di salute da parte della persona, senza mediazione di polizia.

La legge 180 del 1978 modifica radicalmente l’assistenza psichiatrica, riportandola al solo ambito sanitario considerando centrale l’intervento nel territorio e non più quello ospedaliero. Nel territorio non si può custodire, ma solo curare.

Questa concezione è subito confluita nella legge di Riforma Sanitaria 833 del dicembre 1978; parlare della 833/78, per le parti inerenti la Psichiatria, equivale a parlare della 180.

Normalmente la legge recepisce il comune sentire, ma è sempre vero anche il contrario?

Possiamo dire che negli anni dal ‘45 al ‘90 del secolo scorso, anni in cui lo spirito cristiano, del bene comune, del NOI, questa concezione di cambiare l’assistenza psichiatrica favorendo la decentralizzazione, la umanizzazione, il miglioramento sanitario assistenziale, la cura in tutti i sensi di questi poveretti, è stata anche presente in modo abbastanza diffuso nella popolazione italiana.

Gli anni a cavallo del secolo e soprattutto del 2000 hanno invece visto crescere l’individualismo, l’IO, l’autoreferenzialità in modo sempre più dirompente e importante.

Conseguentemente a ciò il paziente psichiatrico, ma anche il geriatrico, il disabile, il meno efficiente, persino il bambino, è tornato ad essere il disturbante, colui che impedisce di andare a lavorare, di guadagnare, di crescere nella posizione sociale e, soprattutto, di divertirsi, di andare a godere del meritato riposo nel fine settimana, nelle ferie, di uscire a cena o alla spritz con gli amici. Il diritto al mio divertimento, al mio tempo libero è sacro!  Questo trend verso la emarginazione, il rifiuto del congiunto disturbante si è mantenuto ancora oggi e ha portato alla luce il problema genitoriale definito il “dopo di noi”.

Vorrei aggiungere qui una cronaca del febbraio 2022 di Verona che esprime molto bene il pensiero odierno sulla figura del diverso potenziale paziente psichiatrico.

Un clochard, che viene da un paese orientale, la notte dorme e “abita” da anni in una antica Arca funeraria attaccata ad una Chiesa del centro di Verona. Peccato che ogni tanto accende un fuoco e ovviamente rischia di fare danni notevoli all’Arca e alla Chiesa. Questo individuo passa la giornata a bere alcolici per cui è anche ubriaco quasi 24 ore al giorno e non è molto “cordiale”. Mercoledì 9 febbraio accende il solito fuoco e ne consegue una lite con gli abitanti vicini. Emerge anche che, in mancanza di servizi igienici, fa i suoi bisogni incurante di chi passa, donne e bambini che siano. Sul quotidiano di Verona esce un articolo di cronaca e protesta, con pressante richiesta alla psichiatria di intervenire con il Trattamento Sanitario Obbligatorio per … pericolosità e atteggiamento di pubblico scandalo. Quindi si vede che il concetto di pericolosità, abrogato nel 1978, è ancora sempre vivo nel 2022 nella cultura popolare e dei giornalisti.

Il matto è da legare, ma gli psichiatri non possono legare.  La concezione della psichiatria come della “lavatrice sociale” è dura a morire.

In molte conversazioni con genitori o persone adulte, sia in Italia che qui in Kazakhstan, un elemento ricorrente è la notazione che “i giovani d’oggi” sono più fragili di quelli di una volta. Dalla sua esperienza professionale ma anche da quella puramente umana, ritiene che queste facciano parte degli eterni e normali conflitti generazionali, o sottolineino invece un reale problema? Che cioè i giovani oggi siano meno “attrezzati” ad affrontare la vita nei suoi aspetti più critici?

Il periodo storico che abbiamo vissuto in Europa dal 1945 ad oggi, è stato un periodo piuttosto straordinario in quanto si è avuto un miglioramento globale della qualità della vita e di una lunga pace senza guerre, come raramente, o mai, è successo in passato. Allora dobbiamo inserire nella storia i temi di cui stiamo parlando.

Ovviamente senza fare generalizzazioni, ma solo come metafora per farmi comprendere, possiamo paragonare questi settanta o ottant’anni anni ad un grande ristorante.

I nati negli anni 1930 e 1940 hanno costruito le mura della casa, i nati negli anni 1950 l’hanno arredata e attrezzata e hanno fatto la spesa del cibo, i nati negli anni 1960 hanno acceso i fuochi cucinato e mangiato. I nati negli anni 1970 e 1980 hanno mangiato di gusto, lasciando un po’ di dessert ed il caffè a quelli del 1990.

Poi i 2000 hanno “sparecchiato” e ora i 2010 e i 2020 sembrano destinati alla funzione di pulire e cercare il modo di eliminare le immondizie lasciate dai “genitori”.

Possiamo dire che tutti hanno avuto la stessa esperienza di vita e gratificazione nel servizio del ristorante? No! Tutto ciò sempre ribadendo che stiamo facendo una semplificazione e che in tutte le generazioni ci sono state persone ottime e laboriose.

Se pensiamo ai giovani del Movimento che ha caratterizzato il 1968 e li inseriamo nella storia, scopriamo che quei giovani erano nati negli anni subito dopo la guerra, quindi nel ’68 erano ventenni e trentenni. I loro genitori avevano vissuto il dramma, le fatiche e le paure della guerra, della occupazione e della Resistenza e l’entusiasmo della ricostruzione. Tutto quello spirito, quelle esperienze non potevano non essere state trasmesse alla generazione successiva. I concetti educativi e la loro vita erano impregnati di parole quali: libertà, patria, impegno, politica, ideali, lavoro, uguaglianza, ricostruirsi con fatica un ruolo sociale, economico, rispetto dell’altro e quant’altro ben immaginiamo.  Per non parlare dei Valori Umani alti.

Dopo quel tempo nei decenni successivi si è visto un progressivo ritiro ad un minor impegno sociale, politico, a disinteresse sempre crescente per la società e la vita comune, il sacro. Questo vissuto di estraneità ha portato i giovani ad altri interessi più individualistici, più edonistici, più superficiali e autocentrati. Generazione dopo generazione, l’idea del NOI si è persa ed è cresciuta l’importanza, il valore, la ricerca dell’IO, divenuto dominante nel mettere davanti a tutto sé stesso, il proprio interesse, la propria gratificazione e l’avere tutto e subito. E’ apparsa una generazione cresciuta con il mito del consumismo, del divertimento, del comperare nuovo, dell’ultimo modello, ma tutto per me. Una generazione sempre più autoreferenziale incapace di vedere l’altro, di incontrarsi nel dialogo, ma più desiderosa di imporre il proprio sé la propria idea. Sembra che più si fanno i propri interessi, i propri vantaggi, più si parla di interesse comune, di comunità, di convergenza. Parole e realtà corrono su strade contrapposte.

Abbiamo visto, ancora, e temo non per l’ultima volta, queste difficoltà e questo scontro autoreferenziale alle elezioni del Presidente della Repubblica 2022. Il motivo della disfatta è stato nel dire NO ad ogni proposta dell’altro, associato al voler farsi carico della vittoria, non del compromesso o del sacrificio per la, tanto declamata, convergenza. Se non ci fossero stati i pochi seniores della politica sopravvissuti alla rottamazione in nome del rinnovamento della politica, dove saremmo finiti con i vari cinquantenni dei partiti?

Il rapporto genitori e figli si è allentato e la trasmissione dei valori fondanti dell’Uomo non sono più stati trasmessi, ma è stato piuttosto passato l’esempio che dice “pensa per te”, “prendi e usa tu, senza guardare agli altri”. Gli adulti non hanno tempo, interesse e voglia di occuparsi dell’educare, sonno occupati a lavorare e divertirsi. Ai giovani ci deve pensare la scuola, la Società, lo Stato, la Chiesa, le “agenzia educative”.

Possono questi giovani di 30 anni, più o meno cinque, essere attrezzati come le generazioni precedenti ad affrontare l’attuale fase?

Possono i ventenni essere sereni quando vedono un mondo (come nella metafora del ristorante) dove c’è tutto da pulire e rifare senza che nulla ci sia in cassa, se non debiti?

Io vedo due età diverse, con tutte le enormi sfumature tra loro possibili.

Ci sono quelli incapaci di affrontare la vita, una vita ora più faticosa, degradante e con minori speranze, in quanto non hanno avuto l’allenamento a farlo. I genitori gli hanno dato tutto, li hanno considerati come IO allargato, e quindi parte di sé stessi, da gratificare più che da educare.  Si trovano ora anche a competere con giovani immigrati che, invece, hanno la voglia e la disponibilità ad impegnarsi per integrarsi, crescere, elevarsi.

Ci sono poi i più giovani che sono arrabbiati perché si trovano un mondo precario. Questa rabbia, però, gli dà la voglia e l’energia di combattere per rimettere in piedi le macerie che le generazioni precedenti hanno lasciato. Loro non hanno “assaggiato il dolce, il gelato e il caffè”, ne hanno solo sentito parlare e sono pronti a rimboccarsi le mani per riprendere ciò che si sono persi nel racconto della vita. Ovviamente sono più “incazzati” e quindi più competitivi.

La sfortuna è che spesso non conoscono i valori Umani, del vivere insieme civilmente, e, in questa non conoscenza e non educazione, riaffiorano e usano quelli ancestrali della competizione, della lotta, della sopravvivenza e si muovono in branco secondo quelle modalità istintive, le sole che conoscono e che gli sono state trasmesse dalla natura animale stessa: Chi picchia per primo, picchia due volte e vince. Il più forte domina gli altri.

I nonni sono gli unici che hanno i valori etici, sociali, potrebbero e dovrebbero trasmettere la loro saggezza, le loro storie e far loro capire il modo Umano e giusto del vivere in società. Ma i figli li hanno allontanati nelle case di riposo o relegati a casa loro, sono i primi a non considerarli e i vecchi stessi sono stanchi e afflitti e quindi rassegnati a vedere il loro mondo sparire.

Nulla di ciò elimina o attenua comunque la conflittualità generazionale o la disastrosa esperienza di ritiro sociale che la pandemia ha creato. Una bella torta richiede tanti ingredienti tutti fondamentali anche se in misure diverse, così la realtà attuale risente di tante storie, culture, aspetti economici e organizzativi della società e del tempo e tutto insieme contribuisce a determinare gli attori d’oggi.

E ora un tema tuttora scottante per il mondo intero. La pandemia. Il clima generale, in alcuni momenti drammatico, le restrizioni, l’abbandono di abitudini e relazioni significative, la didattica a distanza. Tutto questo ha fatto crescere il sorgere di disagi mentali? E’ aumentato il numero di persone che si rivolgono ad uno specialista per l’insorgere di problematiche a livello psicologico? Come sta rispondendo il sistema sanitario? E quali sono le forme che meglio rispondono ai bisogni della gente oggi.

Io sono convinto che la pandemia sia per l’uomo d’oggi un grande problema, ma anche un comodo e grande tappeto sotto cui nascondere la polvere di tante difficoltà ed errori che c’erano già in fieri, ma non erano esplosi. L’alibi della pandemia ci permette di spostare l’attenzione e le colpe di ciò che non va bene e ci crea disagio nel mondo in cui viviamo. Vogliamo credere che i nostri problemi non dipendano da decenni di nostre scelte individualistiche, economia sfrenata, carenze educative, interpretazione soggettiva di parole importanti e fondamento della vita civile, come: libertà, autodeterminazione, responsabilità individuali e collettive, laicizzazione, obblighi e molto altro.  Oggi per tutto è data la colpa a un virus Covid e alle sue interferenze nella nostra società negli ultimi due anni.  Credo che sia una bella difesa che ci stiamo dando sviando le responsabilità collettive.

Vediamo ad esempio la divisione tra si vax e no vax, favorevoli e contrari al vaccino. Se lo vediamo nello specifico appare ovvio che questa divisione sia legata al virus e al suo vaccino, ma contemporaneamente per affrmare questo dovremmo tralasciare, dimenticare e far finta che non siano esistite, molte altre radicalizzazioni ideologiche che fino a due anni fa hanno portato al contrasto tra favorevoli e contrari. La conflittualità, la divisione e lo scontro tra anime diverse c’è da molto prima. Pensiamo, ad esempio, proprio alle altre vaccinazioni obbligatorie, all’Alta Velocità, all’oleodotto pugliese, ad aperture contro chiusure dei confini, solo per citarne alcune più celebri e recenti, eclatanti e diffuse. Nella storia si … contro no … ne troviamo a migliaia. Ogni novità in ogni paese, anche la più piccola frazione, da sempre vede lo scontro, non tra idee, ma tra ideologie contrapposte. Nell’animo umano lo scontro è più presente dell’incontro, un Peppone e un Don Camillo lo troviamo sempre, e non solo ora, certo non per “colpa” del Virus.

Ciò non toglie comunque che la pandemia ci ha messo, come sempre stato nella storia, del suo a fare disastri e a modificare la vita umana. Il vaiolo ai tempi dei Romani, la Peste prima per i Romani e poi nel 600, la Spagnola a inizio ‘900, solo per citare alcune pandemie, hanno cambiato e influenzato la storia. Non solo le malattie incidono sulla storia, se pensiamo che Napoleone, che dice la storia fosse un grande calcolatore delle strategie, non aveva potuto fare i conti con l’esplosione di un Vulcano le cui ceneri hanno fatto raffreddare il clima in Russia proprio quando lui ci è andato “in visita” con le sue truppe e questo ne ha favorito la disfatta.

Sicuramente il Covid ha interrotto la socializzazione, la comunicazione e quel poco di confronto e dialogo che c’era, la già ridotta serenità del vivere sempre di fretta, sempre avendo come valore il lavoro indissolubilmente legato all’economia e non alla identità e dignità della Persona stessa, ancor meno come servizio alla comunità, e ci potremmo dilungare.

Sicuramente il virus ha sospeso la speranza nel futuro di tutti e la capacità e possibilità di guardare avanti con fiducia proiettando oltre l’oggi i nostri programmi di vita nel tempo. Se si chiede ad un ragazzo “cosa vuoi fare di te in futuro?”, emerge che l’idea di futuro è ancora più oscura, precaria e incerta di qualche anno fa. Il futuro è …, secondo il periodo, il fine settimana, l’ultimo dell’anno o le ferie estive. Oggi è anche aggravato dalla paura di ciò che sarà il domani, domani che il Covid ha effettivamente ipotecato sempre più.

I vecchi hanno visto modificata l’idea di passare serenamente la loro pensione con gli amici e secondo i progetti che si erano fatti, quelli dell’età di mezzo, con la loro modalità di vita disimpegnata e edonistica, hanno visto interrotto il mito della Spritz e delle cene (!!) e della “libertà” di fare ciò che si vuole e piace, i giovani hanno visto sospesa l’esperienza delle “prime volte”, la socialità, l’amicizia, l’amore e ritardare la fine della formazione e inizio della vita professionale e il loro ingresso nel mondo sociale e adulto.

Oltre a tutto ciò che riguarda i singoli si devono aggiungere aspetti che coinvolgono la società nel suo complesso, ma a cui singolarmente apparteniamo: debito pubblico enorme, perdite economiche di aziende e dei lavoratori, impegni economici dello Stato, con politici del tutto non adeguati e incapaci a fronteggiare il sacrificio necessario alla ripresa. Tutte difficoltà che si ripercuotono sulla quotidianità di molti.

Sul piano psicologico e psicopatologico la perdita del futuro e della speranza portano ad un disagio che si traduce in assuefazione, immobilismo e ad un malessere che si presenta, tra altre manifestazioni, anche nell’ascolto eccessivo dei segnali somatici, in un circolo continuo tra ascolto ansioso delle turbe somatiche e somatizzazioni dell’ansia. Crescono in tale contesto i disturbi del comportamento alimentare, la bulimia, l’anoressia.

Nella solitudine, nella mancanza di significato del quotidiano poi si cerca svago e gratificazione negli abusi di sostanze, nel gioco, nella realtà virtuale e in un mondo fatto di gratificazione nell’eccitamento fasullo.

La frustrazione poi apre la porta alla psicopatologia vera e propria con aumento delle problematiche che nascono nella fragilità della personalità e quindi: depressione, disturbi della sfera ansiosa, ideazione suicidaria, fuga e ricerca emotiva nell’autolesionismo, nell’aggressività sempre più precoce.

La paura dell’altro incrementa conflittualità e pensieri persecutori di tipo paranoide o disorganizzazione psicotica della persona.

Tutto questo porta a sfiducia, a non “vedere” un futuro e al vissuto di sentirsi senza una guida, un punto di riferimento che dia speranza.

Questa mancanza di punti di riferimento, se è importante per l’Uomo in tutte le età, lo è ancor più per il giovane in formazione verso la vita. Il giovane ha bisogno di confrontarsi con una guida, con dei paletti, se vogliamo che trovi una giusta strada e una via nella vita. Oggi il mondo degli adulti, come genitori e come società, è preso da sé stesso e spesso è in confusione lui stesso, come può essere guida per altri? Spesso poi, senza generalizzare, i genitori hanno sui figli solo una visione individuale, come di un IO allargato, e quindi li soddisfano nelle loro richieste e non nei loro bisogni. Li gratificano e li riempiono di cose più che di ascolto, attenzione e affetto, divenendo quindi poco credibili come figure valide e maggiori da seguire o, peggio, divengono modelli negativi. Ne nasce così una debolezza nel trasmettere alle generazioni successive con le parole e, ancor più, con la testimonianza, valori Umani quali: rispetto dell’altro, attenzione, valore sociale, e significato dell’altro diverso da sé. Viene anche a mancare l’educazione al significato e alla gravità delle proprie azioni e delle conseguenze delle stesse, laddove questa dovrebbe derivare fin dalla tenera età dal sottolineare le responsabilità individuali e dal rimarcare la gravità dei comportamenti inadeguati, irrispettosi e, ancor più, asociali, antisociali, violenti contro le persone e di danneggiamento delle cose d’altri e proprie. Occorre che il giovane impari a riconoscere il male fatto e chieda davvero perdono alla sua vittima. Ma questo richiede una vera consapevolezza della negatività delle proprie azioni.

Gli adulti d’oggi cresciuti e avvolti dal proprio IO, fatto dei miei diritti, della prevalenza del mio pensiero sul tuo, della autoreferenzialità sono in grado, possono trasmettere questi valori e questa consapevolezza?  Quando assistiamo a genitori che vanno ad aggredire insegnanti perché hanno dato un brutto voto ai loro pargoli o le aggressioni coniugali, o … i nostri politici incapaci di dire sì ad una idea, magari buona, solo perché proposta da un altro partito, che testimonianza abbiamo? Io ho ragione tu hai torto e questa verità la posso difendere anche distruggendoti attraverso i social, fisicamente o sulle cose che ti appartengono, ecc.

Questa visione dell’IO come padrone del mondo sta alla base anche del cosiddetto femminicidio. Tu donna sei cosa mia e appartieni a me e solo a me. La tua libertà, i tuoi spazi, il tuo tempo li gestisco io, quindi, per esteso, anche la tua vita appartiene a me. Ecco un esempio che spiega perché non tutto deriva dal Covid, ma da anni di esasperazione del concetto di individuo sopra tutto, libertà, o meglio egoismo, individuale sopra tutto. Sicuramente il Covid, la forzata chiusura in casa, insieme, una restrizione della libertà di stare insieme ai parenti, agli amici e alcuni comportamenti obbligati, hanno evidenziato come una cartina al tornasole ciò che di problematico già esisteva.

Il mondo degli adulti ha abdicato alla possibilità e fatica di educare, non è più capace di assumersi l’onere e la responsabilità di trasmettere con la parola e l’esempio i valori fondanti la comunità sociale il vivere civile. Anche i ragazzi però hanno bisogni di valori, di regole codificate e distintive, di limiti e, dove il mondo degli adulti non lo insegna, subentra il branco con le sue regole e significati.

Da sempre per i giovani è fondamentale e importante, più di ogni altra agenzia educativa, il cosiddetto “gruppo dei pari”. Un tempo questo gruppo aveva il controllo dei genitori, della scuola, della parrocchia perché si realizzava o in loro presenza o in ambienti di vita controllati e conosciuti. Ora questa realtà scolastica o parrocchiale o di ambienti “sani”, con valori profondi sono andati in crisi, non come istituzione, ma per il venire meno nella società di quei significati Umani e Sociali del vivere civile e del vivere insieme nella comunità degli Uomini.

Senza quei riferimenti sono nati gruppi spontanei, gruppi autogestiti dove il più forte, il vincente, nel senso quasi zoologico, appare la guida.

Riporto qui il pensiero di Amedeo Bezzetto: psicologo e psicoterapeuta responsabile area adolescenti dell’Ospedale Villa Santa Giuliana Verona. “La baby gang purtroppo è perfetta per gli adolescenti che trovano nei gruppi più o meno organizzati una proposta imperdibile, soprattutto quando quella di scuola, associazioni, e famiglia mancano o sono inadeguate”. “La baby gang è una forma di fare amicizia, e l’amicizia è una componente imprescindibile per gli adolescenti, uno dei requisiti fondamentali del crescere. La proposta di queste organizzazioni funziona eccome, anche se nel modo sbagliato. La forma è perfetta per un adolescente, anche se la sostanza non va bene. Sono gruppi in cui si impara reciprocamente e si fa esperienza, preadolescenti o adolescenti preferiscono come riferimento coetanei o ragazzi poco più grandi, rispetto a educatori o famiglie.”

Ancora: “Siamo abituati a pensare che il dolore psicologico nei maschi si scarichi attraverso le azioni e nelle femmine nei pensieri, ma potrebbe essere che assistiamo invece ad una sorta di parità di genere anche in questo ambito”.  

“Ascoltare è fondamentale, ma con i figli già in situazioni di difficoltò risulta complicato, credo che un aiuto reciproco tra famiglie sia importante.” Per questo “punterei ad offrire formazione alla genitorialità, per incontrarsi e riflettere su come sono gli adolescenti, sulle dinamiche relazionali e sulle loro richieste.” (Amedeo Bezzetto)

Il Covid con le sue clausure, privazioni delle libertà con successiva mancata soddisfazione di bisogni necessari, ha favorito un’impennata di questi mondi, di queste associazioni e gruppi di giovani senza nessun controllo rendendo necessario e utile il sistema dei social. Non più amicizie, gruppi, scambi reali, ma virtuali. In questi gruppi posso mostrare tutto me stesso senza filtri o timori della e per la mia persona reale, posso nascondere ciò che mi crea problema e presentarmi come il vincente, che magari non sono. L’incontro tra persone diventa incontro e/o scontro tra individui virtuali e segue le stesse modalità degli eroi dei cartoni animati. Non sempre tutti cattivi, ma sempre tutti forti, potenti, vincenti. Il virtuale però, già dominato dalla scuola a distanza e da una invasione eccessiva della vita, stanca, non meraviglia e non appaga più i giovani. Ed ecco che invece il gruppo trasgressivo li accoglie, li conforta, dà loro quel senso di identità attraverso l’appartenenza e il significato dell’essere.

Il professor Vittorino Andreoli, famoso psichiatra veronese, sottolinea come “i nipoti appaiono confusi e disorientati in una società così accelerata da non sapersi fermare su esempi da seguire, nel periodo della crescita”. A fronte di ciò vede come gli adulti fatichino persino a definire come e cosa significhi educare.

Nella mia pratica clinica trovo spesso anziani che si sentono incapaci di fare ciò che hanno sempre fatto anche per il venire meno delle forze fisiche. Io raccomando di reinventarsi diventando testimoni viventi del loro tempo passato verso i giovani nipoti. La realtà dei campi di concentramento nazisti è una cosa molto diversa nei libri e nella memoria di un anziano che io frequentavo a liceo.

Andreoli sottolinea come “la saggezza sia la forza della vecchiaia, una fase dell’esistenza che viene considerata inutile, se non un peso, quando la si misuri unicamente con i parametri della economia”. Egli allora propone e raccomanda di “unire il tempo silenzioso dei vecchi con il bisogno scalpitante di questa generazione che vede nelle esperienze e nel fare una forte motivazione”.

Trovo interessanti ed importanti alcune considerazioni proposte dalla dottoressa Anna Ferrari, psicologa clinica. I ragazzi “provano fastidio per le regole in continua mutazione e, particolarmente, per quella parte di insegnanti che talvolta, per primi le impongono, senza però rispettarle. E soffrono per la mancanza di socializzazione, le troppe “prime volte mancate” nell’amicizia, nella relazione, nell’amore. Quei momenti che per molti di noi hanno segnato le tappe fondamentali della vita” Di fronte a tutto ciò e a differenza del passato i giovani “non sono arrabbiati, ma sono generalmente rassegnati, stanno semplicemente fermi”.

Dopo l’analisi e l’osservazione delle criticità: si vedono soluzioni? quali prospettive? Quali speranze?

Parlare di soluzioni immediate o magiche sembra difficile. Credo che per una valutazione serena si debba imparare dagli storici e rivedere i momenti critici del passato e partire da lì per rivedere il nostro attuale momento con il distacco necessario. L’uomo ha sempre sognato e desiderato la pace, la serenità ed il benessere, ma raramente li ha vissuti compiutamente e per tempi lunghi.

Se leggiamo gli effetti disastrosi delle pandemie antiche e più recenti ci possiamo rendere conto che gli effetti e la mortalità sono state molto più importanti della pandemia di Covid 19. Noi abbiamo avuto un bagaglio di conoscenze medico- biologiche e una tecnologia che ci ha permesso di comprendere la natura della malattia e di realizzare le difese molto precocemente e attenuarne gli effetti. In un mondo dove l’uomo aveva creduto di liberarsi dal Creatore e sostituirsi nella gestione della vita abbiamo scoperto la nostra fragilità. Si è rivelata una fragilità che potremmo chiamare medica nella gestione della vita, ma si è rivelata anche una fragilità culturale e ideologica nell’accorgersi da parte di molti della manifestazione di tanti pensieri fantasiosi, paranoidi, interpretativi che forse solo gli psichiatri conoscevano. Forse vivevamo già da tempo in un mondo spaccato, tra due mondi separati in casa senza vederlo. Medici, operatori del sociale, forze dell’ordine, volontari dell’assistenza e aiuto in genere, chi si occupava dell’uomo e delle sue miserie, da una parte; politica, televisione, giornali, operatori turistici, della ristorazione, del divertimento, dello spettacolo, dall’altra. Un po’ come se fossimo tutti sotto lo stesso tetto della casa, ma c’era chi vedeva spiaggia e mare e chi vedeva il retrocucina, i depositi dei rifiuti e i magazzini.

La emersione e il verificare collettivamente e singolarmente questa fragilità e questo mondo nascosto, ha portato ad una maggiore consapevolezza diffusa di questi e tanti altri aspetti negativi del nostro mondo reale. Pensiamo all’impotenza di fronte alla morte, alla difficoltà della sanità, alle disuguaglianze della assistenza medica nei diversi continenti, ai problemi derivanti da una economia troppo vincolata alla globalizzazione sfrenata, alla insicurezza del mondo dei social e al pericolo degli ignoranti e saccenti cosiddetti esperti sanitari che riempiono di fake – news i vari mezzi di comunicazione e quant’altro ci si è mostrato pesantemente in questi due anni.

Come detto per i ragazzi, anche per noi adulti, per i governanti la politica e l’economia e per tutti è dalla consapevolezza degli errori e delle carenze che nascono le idee nuove per risolvere, cambiare, innovare e dare risorse per poter veramente mettere in atto le realtà diverse e più adeguate che servono al mondo per migliorare ed evitare nuovi errori. Allora oggi che siamo più consapevoli della nostra realtà e delle nostre cecità, possiamo sperare che ciascuno si metta in cammino verso un sentire più attento, vigile e meno infatuato rispetto a quegli aspetti della globalizzazione, dell’informatizzazione, dell’individualismo, della conflittualità che hanno dominato e caratterizzato i primi anni del terzo millennio.

Cerchiamo allora in questo evento pandemico e in tutte le difficoltà di vedere con fiducia un futuro “risorgimento” dell’Uomo, dell’Homo sapiens e di un’umanità meno sapiente ricca, frettolosa, superficiale e gaudente, ma più unita, attenta all’altro, educatrice e rispettosa dell’ambiente e dei sé stessa. Sicuramente come nel passato ci sono e saranno uomini saggi, attenti e positivi che sapranno guidare l’Umanità verso stili di vita più sani sul piano psichiatrico e più adeguati sul piano sociale.

Alla fine di questa storia di problemi e difficoltà dei giovani e degli uomini d’oggi, voglio concludere con una parola, del prof. Marco Trabucchi, psico-geriatra, capace di rinsaldare la volontà di cercare sentimenti di speranza e di spinta all’impegno: “Vale la pena di salpare verso la stella più lontana, senza farci scoraggiare dalla notte che ci avvolge.”

                                                                                                   Dott. Luigi Trabucchi. Psichiatra Verona

Добавить комментарий