Emanuele Gatti, italiano e tedesco, è un europeista convinto. Laureato in bioingegneria ha sempre combinato l’attività manageriale con quella accademica. É stato per 17 anni CEO di una multinazionale tedesca e ora si concentra principalmente sull’ attività accademica che svolge in Austria e Germania. É presidente della Camera di Commercio Italiana per la Germania a Francoforte e consulente scientifico di fondi di Venture Capital e di PMI (cioè medie imprese innovative). Ha ricevuto parecchi riconoscimenti per la sua attività sociale, umanitaria e professionale sia in Italia che in Germania e Austria. É sposato ed ha due figlie.

D — Tu hai viaggiato molto. Proviamo invece a fare un viaggio nel tempo assieme? Quando usciremo dall’emergenza?

R — Sono ottimista sul fatto che usciremo presto, nel mondo occidentale, da una certa fase dell’epidemia, cioè riusciremo ad evitare il ripetersi di un gran numero di morti e di ospedalizzazioni. La scienza sta facendo velocissimi progressi sia dal punto di vista dei vaccini che delle terapie per contrastare la malattia. Le ricerche cliniche sui meccanismi fisiopatologici ci permetteranno di capire meglio cosa succede in realtà una volta che il virus ci abbia attaccato e quindi di architettare difese opportune. La tempistica per l’uscita definita e globale dipenderà esclusivamente dalla velocità di vaccinazione della maggior parte della popolazione mondiale, il che è un’impresa immane. A mio avviso una veloce copertura della maggioranza delle persone permetterà di ottenere due vantaggi: salvare vite umane ed evitare che il virus si replichi continuamente con varianti sempre diverse e magari più letali. Dobbiamo capire che la salvezza del singolo è raggiungibile solo con la salvezza di tutti. Si potrebbe obiettare che per fare ciò occorre un enorme sforzo economico, per produrre, in centinaia di impianti, le dosi necessarie di vaccino. Mi si permetta di sottolineare che i danni all’economia dovuti a questa pandemia sono incalcolabili ma immensi. Inoltre, sviluppare sempre nuovi vaccini per le nuove varianti non sarà uno sforzo trascurabile. Quindi la scelta è solo se essere proattivi o invece attendere il peggio. La pandemia da SARS-CoV-2 dovrebbe averci definitivamente insegnato che le uscite monetarie per la salute non sono costi, ma investimenti, che rendono enormemente. Comunque, esistono ancora innumerevoli punti interrogativi, per esempio al riguardo delle cure pediatriche, quindi i tempi non saranno brevi: dobbiamo dimenticarci di tornare a quella che ci ostiniamo a chiamare la normalità. E, sotto certi punti di vista, direi per fortuna.

D — In che senso?

R — Lo sviluppo di questa enorme tragedia mondiale è anche il frutto di stili di vita e di sviluppo della società che venivano criticati, ma sempre accettati per il quieto vivere e per gli interessi economici prevalenti. Abbiamo sfruttato il territorio, costruendo agglomerati assurdi “impaccando” la popolazione, dove ora vogliamo raggiungere il distanziamento sociale, abbiamo accettato una società “degli acquisti”, non dei consumi, perché non consumiamo ma generiamo enormi scarti, abbiamo inquinato l’aria ed ora ci accorgiamo dei danni anche per la trasmissione dei virus, abbiamo lasciato crescere modelli produttivi dove è impossibile occuparsi contemporaneamente della famiglia e del lavoro, abbiamo sostanzialmente sottopagato una buona parte del mondo per produrre a basso prezzo qualcosa che comperiamo inutilmente e spesso buttiamo via.

D — Questi ed altri sono grandi temi, ma noi personalmente da dove possiamo partire in concreto?

R — Dobbiamo dare al primo nucleo di aggregazione, cioè al piccolo grande mondo delle famiglie, tutto quanto possiamo per evitare l’ulteriore “Covid-divide” cioè l’aumento delle disparità tra famiglie e tra membri di una stessa famiglia. Per prima cosa dobbiamo riprendere con più forza, maggiore determinazione e mezzi, la formazione psicologica delle famiglie. Il supporto di esperti, nella fase di creazione consapevole di una nuova famiglia, potrebbe evitare problematiche che ora si manifestano chiaramente. In aggiunta, l’educazione dei figli è spesso lasciata alla sola improvvisazione amorosa dei genitori, e questo in molti casi di difficoltà non basta. Un discorso a parte e molto complesso riguarderebbe il supporto di famiglie in difficoltà, che non può solo risolversi nel pur necessario e spesso persino mancante aiuto economico. La situazione economica permette comunque ad alcuni di superare molto più facilmente questa fase, partendo dalla disponibilità di aiuti domestici, di accompagnamento dei figli nello studio, per altri, la maggior parte, la situazione sta velocemente peggiorando. Enormi parti del mondo non hanno acqua e cibo, e questa è certamente la primissima priorità. Io vivo nel mondo occidentale e certamente non ne percepisco appieno la drammaticità. Accanto a queste priorità, tuttavia, c’è quella della formazione ed educazione. La possibilità di inserirsi in modo maturo in un mondo che continuerà a richiedere nuove conoscenze e competenze, deve divenire non solo una priorità a parole, ma deve realizzarsi concretamente. E non solo ci sarà bisogno nel futuro di vette di scienza, ma anche di sapere pratico e manuale declinato però in termini innovativi e soprattutto equi. Tanti bambini ed adolescenti sono ora costretti alla didattica a distanza (DAD).  Diamo a tutti la possibilità di essere in linea con internet e di usare personalmente un PC o altro strumento idoneo DAD. Non è possibile che i genitori debbano scegliere, nel migliore dei casi, quale figlio possa accedere alla DAD e chi no. La copertura globale della rete, anche nei villaggi sperduti deve divenire una priorità. Spendiamo cifre astronomiche per la difesa militare e non difendiamo le nuove generazioni dal pericolo dell’emarginazione sociale, culturale e di formazione tecnica e professionale. Ovviamente, non che la “rete” sia la panacea di tutti i mali: assieme all’infrastruttura dobbiamo creare una governance idonea ed efficiente.

D — Ma la disponibilità di mezzi di comunicazione è così importante?

R — Faccio un esempio: nel presente e ancor più nel futuro, grazie alle nuove tecnologie potremo fare virtualmente meravigliose visite a musei, a città, a località difficilmente raggiungibili. La realtà aumentata ed altri nuovi mezzi, se opportunamente governati, permetteranno anche a chi non ha le possibilità fisiche ed economiche di muoversi, di viaggiare il mondo. Per non parlare delle nuove tecnologie di riconoscimento vocale che permetteranno a bimbi di tutto il mondo di esprimersi nella loro lingua madre e comunicare tra nazioni molto semplicemente. Ma ci sono alcuni presupposti.

D — Quali?

R — Per esempio, che la “rete” riassuma la sua originaria funzione etica, svanita o perlomeno ridotta per fini commerciali negli ultimi anni, e che la formazione degli educatori si adegui pari passo allo sviluppo delle nuove tecnologie. Occorre che un educatore, specialmente a scuola, non sia solo un esperto della sua materia, ma che possegga tutte le competenze per permettere ai giovani di aggiungere all’apprendimento scolastico tradizionale la possibilità di usare i nuovi mezzi per crescere in “saggezza, età e grazia” per inserirsi al meglio nel contesto sociale e realizzare la propria personalità e contribuire allo sviluppo sostenibile della società. Però abbiamo bisogno che i “media” facciano il loro lavoro correttamente.

D — In che senso?

R — Negli ultimi anni abbiamo visto proliferare mezzi di comunicazione che utilizzano altri canali rispetto a quelli tradizionali. Con un po’ di ingenuità e forse utopisticamente penso che la manipolazione a proprio favore di notizie sia un danno enorme per la società. La professionalità, quando si comunica, è un elemento fondamentale. I nuovi mezzi, ed ovviamente in primis quelli tradizionali, devono evitare di diffondere nella popolazione fake news, notizie non verificate, di fare taglia ed incolla di comunicati senza verificarli, eccetera eccetera. Questa è una delle ragioni per cui la fiducia nella popolazione è molto diminuita.

D — Spiegati meglio

R — Cominciamo dalla fiducia negli organi di governo e nella classe dirigente. Per un’analisi equilibrata, non si può non partire dal presupposto che stiamo vivendo, improvvisamente e senza aver valutato avvisaglie precedenti, un periodo estremamente difficile. Non ce lo aspettavamo e non eravamo preparati ad affrontarlo. Sarebbe stato possibile affrontarlo meglio? Forse si, se la classe dirigente avesse ascoltato i segni della natura, che si stava ribellando e ci diceva di smettere di violentarla? O forse se i piani pandemici fossero stati preparati professionalmente e dotati di mezzi economici adeguati? O se si fosse investito di più in ricerca e cura della persona? O magari se la solidarietà internazionale fosse intervenuta prima di avere le spalle al muro? Solo a freddo saremo in grado di darci delle risposte. Tuttavia, ora il danno è fatto. Ma la perdita della fiducia si è estesa anche ad altre categorie, quali organi regolatori, come le agenzie del farmaco, la stessa industria farmaceutica, che vituperiamo ma invochiamo come salvatrice dalla pandemia e soprattutto la mancanza di fiducia si manifesta come pessimismo, depressione e solitudine.

D — Quindi oltre a malattie organiche, anche psicologiche?

R — Si, certamente, le più subdole, difficilmente riconoscibili e curabili. Il Covid-19 lascerà presumibilmente strascichi cronici lievi -o forse anche gravi- a chi ha avuto la malattia (di tipo respiratorio, cardiovascolare, renale?) ma a tutti una necessità di ripensare in modo radicale le proprie certezze od incertezze. Io credo che da un lato l’immanente, il quotidiano, sia stato pesantemente segnato dalla pandemia ed avrà bisogno di cure, però io spero che in questa fase abbiamo recuperato una necessità di trascendente che sarà la chiave di svolta per un recupero. Mi immagino che passando da una linea verticale possiamo arrivare, di ritorno, al nostro orizzontale, cioè al nostro prossimo. In questi mesi abbiamo avuto tempo e modo di riflettere, di guardare a noi stessi da dentro ed allo specchio, e nel futuro avremo modo, mi auguro, di coglierne i frutti. Anche la sofferenza o la perdita di persone care, in modo così traumatico ed improvviso, potrebbe aiutare una seria riflessione escatologica. Queste tendenze e cambiamenti non sono visibili nel breve periodo, ma a mio parere alcune piccole fiammelle di speranza si intravvedono.

D — Per esempio?

R — Lo slancio di tanti nelle opere di supporto ai disagiati, la generosità di tanti volontari, la ripresa di valori etici nella propria professione, il sacrificio di tanti operatori sanitari in questi momenti drammatici e così via. Sicuramente non sono la persona più qualificata a parlarne, ma vedo una certa “pulizia” di una crosta di formalismo e tradizione nella fede religiosa di molti, un ritorno alle basi. Dobbiamo però evitare che il focus nella comunicazione mondiale sia solo puntato sul ritorno alla “normalità” intesa come edonismo futile e consumistico. I media del mondo occidentale purtroppo in questo senso non stanno aiutando. Dobbiamo fare sentire la voce alta e ferma, di chi non accetta più, o forse non ha mai accettato, modelli che si sono rivelati fallimentari. Solo così usciremo da questa pandemia che non solo è sanitaria, ma è una malattia trasmissibile, nel senso che trasmette falsi miti.

D — Come ne usciremo?

R — Preferisco interpretare questa domanda nel senso di come saremo quando ne usciremo. Sta a noi lavorare per uscirne migliori e convincere gli altri a lavorare con noi. Usciremo con alcuni settori produttivi scomparsi o in gravissima difficoltà e con altri nuovi e fiorenti, con un crescente divario di povertà e ricchezza tra nazioni e nelle nazioni, con un senso di solidarietà forse sincero o forse a scopo egemonico tra stati, con un interesse maggiore per la salute fisica e psicologica delle persone, con un livello di digitalizzazione della popolazione molto più elevato, con piattaforme tecnologiche per la cura di altre malattie usando l’esperienza del COVID-19, con la certezza che occorrerà dare lavoro, qualificato e soprattutto equo a chi l’ha perso o mai avuto. Ma una cosa è certa: usciremo dubitando. Il colpo della pandemia ha scosso lo status-quo e solo accettando di mettere il dubbio come metodo propositivo, “dubito ergo sum” potremo lavorare per costruire un nuovo modo di esistere e socializzare, sapendo che la prossima pandem